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di Roberto Savelli

Il nuovo termine coopetition, frutto del mix tra competition e cooperation, aiuta a comprendere meglio come il fintech italiano continui la sua corsa. I risultati della terza indagine conoscitiva del settore, condotta dalla Banca d’Italia nel primo semestre del 2021, dicono che nemmeno la pandemia lo abbia rallentato. «La spesa in tecnologie fintech per il biennio 2021-2022 – spiega la rilevazione di Via Nazionale – ammonta a 530 milioni di euro ed è in crescita rispetto al biennio precedente (456 milioni di euro)». Sempre a confronto con l’indagine 2019-2020, si osserva un aumento del numero «degli intermediari investitori (da 77 a 96 unità) e dei progetti (da 267 a 329)». Queste cifre suggeriscono «un maggior tasso di adozione di tecnologie innovative all’interno del sistema finanziario». E guardando al futuro, da Palazzo Koch prevedono che «a partire dal 2023 e fino alla messa in produzione, i progetti censiti comporteranno ulteriori spese per 281 milioni di euro».

Ma qual è il segreto di questo successo del fintech italiano? Noi di Save Consulting Group, che monitoriamo il settore bancario-finanziario tanto per lo sviluppo della nostra suite di software Tigrearm quanto per la formazione di coloro che operano nel settore e per le consulenze offerte a numerose società del comparto, concordiamo con quanto sostenuto da Alessandra Perrazzelli in un’intervista all’Huffington Post lo scorso ottobre. La Vicedirettrice Generale della Banca d’Italia ha ragione quando, analizzando il rapporto fra pure player fintech e banche tradizionali, dice che non si tratta «solo di competizione ma anche di una dimensione di cooperazione, anche se non nel senso classico del termine», utilizzando il nuovo termine inglese di coopetition.

Mantenendo il focus su detto comparto, anche il nostro team di esperti di Save Consulting Group rileva che i risultati positivi ottenuti nel 2021 e le previsioni per il 2022 fanno ritenere che il fintech italiano sia un settore promettente. Ci sono ulteriori margini di crescita soprattutto se si proseguirà sulla strada della collaborazione tra banche e start-up fintech laddove, in sintesi, le prime mettono il capitale, mentre le seconde portano in dote la forte spinta all’innovazione.

Non a caso, nell’indagine effettuata da Via Nazionale alla voce “Partecipazioni e collaborazioni” si legge che «ad arricchire ulteriormente il quadro va considerato che alcuni intermediari hanno sviluppato un modello di investimento, che, accanto all’investimento produttivo, prevede la partecipazione diretta in imprese fintech: il valore di queste partecipazioni ammonta a 204 milioni di euro ed è riferibile a 28 intermediari». E ancora: «Quattro quinti dei progetti sono sviluppati con la collaborazione di società e istituzioni terze oppure affidando ad esse l’intero ciclo di realizzazione del progetto. Il ricorso alle collaborazioni risponde principalmente all’esigenza degli intermediari di assicurarsi tecnologie avanzate altrimenti non disponibili al proprio interno e di accelerare i tempi di realizzazione dei progetti, riducendo il time to market. Sono 330 gli accordi di partnership segnalati in questa rilevazione e sono riferibili a 199 imprese, di cui circa i due terzi con sede legale in Italia. I rapporti tra imprese e intermediari sono quasi sempre esclusivi: solo poche imprese hanno instaurato rapporti di collaborazione con più di un intermediario».

Questa lunga citazione rafforza in noi di Save Consulting Group l’ottimismo sul fatto che, andando avanti su questa strada, importanti novità potrebbero arrivare in un futuro prossimo. Anche perché all’orizzonte ci sono progetti «per innovare l’erogazione del credito e i pagamenti digitali (in particolare, quelli per il mobile banking, il digital lending e i servizi connessi con l’open banking)». Rimanendo sempre nell’area del business, occorre rimarcare che l’innovazione si focalizzerà anche sui «processi delle business operations e della governance, per quanto inferiori sotto il profilo delle risorse investite». Mentre, c’è da rilevare che «il peso dei progetti per l’innovazione dei servizi di investimento e assicurativi resta contenuto sia in termini di progetti avviati che di spesa».

Questa innovazione dei servizi non rappresenta però che l’eco dei crescenti investimenti in tecnologie. Nel fintech italiano è rimasto elevato, spiega la Banca d’Italia, «il peso degli investimenti in interfacce applicative e infrastrutture tecnologiche (API), che rappresentano il 58 per cento della spesa. Si sono inoltre consolidati i progetti basati sulla biometria, legata prevalentemente alle procedure di onboarding, e sulla Robot Process Automation (RPA), nei progetti riguardanti le business operations e la governance. I progetti fondati sull’intelligenza artificiale (AI), comprendenti il Machine Learning (ML) e il Natural Language Processing (NLP), pur riducendosi di numero, sono cresciuti in termini di spesa, trainati principalmente dalle applicazioni per il digital lending».

Tuttavia, c’è una pagina nello studio della Banca d’Italia che non deve essere trascurata. In essa si evidenziano alcune zone d’ombra del settore. Infatti, il fintech tricolore avrebbe potuto crescere ancora di più se, come chiarisce la rilevazione, non avessero pesato sia fattori di ordine economico («Quali l’insufficiente domanda attesa per i prodotti e i servizi generati dagli investimenti, il costo finanziario dell’investimento e il reperimento del personale») che di ordine tecnologico: «Come la scarsa interoperabilità tra vecchi e nuovi sistemi, la complessità nel controllo dei rischi per la sicurezza informatica».

Analizzato il profilo degli investimenti nel fintech italiano e i fattori che ne hanno rallentato o impedito un’ulteriore accelerazione, c’è da sottolineare che il dossier di Palazzo Koch ha coinvolto l’intero sistema bancario nazionale: 59 gruppi bancari e 53 banche non appartenenti a gruppi. Sono stati inoltre coinvolti 51 intermediari non bancari, «selezionati in base ai volumi di operatività; alcuni, anche se di scala ridotta, sono stati inclusi in funzione dei particolari modelli di business adottati e della loro propensione ad innovare», spiega la rilevazione.

Dalle 39 pagine del dossier redatto dalla Banca d’Italia, risulta chiaramente che «la diffusione delle tecnologie contribuisce a trasformare la struttura dell’industria finanziaria». Inoltre, «i nuovi modelli sono in buona parte inquadrabili nel modello competitivo/collaborativo dell’open banking, reso possibile dal dispiegarsi degli effetti della PSD2, sotto il profilo regolamentare, e dagli investimenti in API, sotto quello tecnologico». Per questo motivo, la coopetition rimane la via maestra. Lo è stato finora e, per Via Nazionale, lo sarà ancor di più in futuro, soprattutto se si volge lo sguardo ai profitti: «Nel biennio 2019-2020 i progetti hanno generato flussi di cassa in uscita e in entrata pari rispettivamente a 456 e 129 milioni di euro. A partire dal 2021, a fronte di un profilo degli investimenti relativamente costante, è attesa una sensibile accelerazione dei flussi di cassa in entrata, capace di generare cash flow netti positivi già nel 2022». Mentre dal 2023 la Banca d’Italia prevede «un’ulteriore espansione delle entrate».

i Roberto Savelli

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